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Giorgione a Montagnana (parte quarta)
di Enrico Maria Dal Pozzolo
Poniamo ora sull'altro piatto della bilancia ulteriori raffronti instaurabili direttamente con
l'opera di Giorgione.
L'aggancio più immediato si ha con le due figure centrali della Prova di Mosè agli Uffizi. La loro
consanguineità con Giuditta è, ai nostri occhi, impressionante: esse sembrano emergere dalla medesima
matrice, in un'inafferrabile mescolanza di forza e melanconia, sobrietà e passione.
Sulla stessa linea si pone il Ritratto di giovane di Budapest, il cosiddetto "Brocardo".
Dipinto a lungo disputato fra maestro e cerchia - alla definizione della cui autografia potrebbe anche
contribuire questo confronto - esso condivide con l'eroina di Montagnana molteplici aspetti.
Taluni sono di immediata evidenza, come la gestualità; altri s'intuiscono grazie alla lettura
stilistica che mette a fuoco lo stesso punto, per così dire, di acerbità, di durezza in via di
dissoluzione.
Soffermiamoci su Giuditta. Come non dire che è splendida? Su di lei si spande il senso del mistero.
Tanto androgina e salda quanto femminei i due maschi fiorentini ed il Brocardo - quasi in un
cristallizzato incontro di opposti - essa si raccoglie in una sospensione espressiva senz'altri
raffronti che non siano quelli giorgioneschi. La bocca appena aperta per parole gravi, ma finali e
liberatrici; l'inclinazione del capo e del busto in omaggio a Colui per il quale affrontò Oloferne,
e vinse; il moto della mano a garantire l'autenticità della fede che la sorresse. Al di là di tanti
accostamenti, è in fondo lo spirito stesso manifestato dal dipinto a condurci all'interno del mondo
poetico, in formazione, dell' uomo di Castelfranco.
Come negare poi la straordinaria concentrazione
formale che connota l'eroina? Essa getta più che sguardi, ampi ponti verso culture che non fanno capo a
Venezia, e sono invece lombarde e, soprattutto, nordiche. Forse vi è ben più che una lontana memoria
del Filippo nell'Ultima Cena leonardesca, a conferma di una recente ipotesi che pone in laguna un
originale cartone vinciano (e si rammenti quanto trasudante Leonardo sia il disegno di Rotterdam).
Di certo vi è una sintonia profonda con certe cose del Lotto (pre e post dùreriano) intorno al
1504-06 che, contrariamente a quanto si afferma, viene a sostenere affini concetti di rottura e sintesi
linguistica.
Siamo davvero in un momento cruciale per tutto il nord e il centro Italia, quando i
ghiacciai quattrocenteschi cominciano a muoversi e a sciogliersi, lasciando il campo a nuove forme:
giovani, vigorose, premonitrici. Così un'immagine come quella di Giuditta suscita in noi paralleli
ideali perfino con le soluzioni, lontane geograficamente ma solidali in animo, del coevo Michelangelo.
A dire del grado di universalità che, nella sostanza, le riconosciamo.
Eppure il più puntuale dei confronti possibili non è con un'opera di Giorgione, bensì di Sebastiano
del Piombo. Al centro infatti del Giudizio di Salomone di Kingston Lacy la figura della vera madre
è assolutamente identica alla Giuditta di Montagnana: l'inclinazione del capo, l'ampia
scollatura, la mano sinistra con il pollice e l'indice nervosi e ben divaricati rispetto alle altre dita.
Certo, la stesura pittorica è differente (anche per via del diverso supporto, a dire il vero), e
giustifica a pieno lo spostamento del catalogo giorgionesco - di cui per decenni, ma ancor oggi da
qualcuno, era ritenuta un caposaldo - a quello di Sebastiano e ai suoi esordi.
Ma si badi bene,
questo Sebastiano stava uscendo proprio in quei mesi dalla costola del maestro, ed infatti il dipinto
si rivela in primo luogo una "palestra" di esercizi giorgioneschi. Per rendersene conto basti un solo
dettaglio, fra tanti disponibili: la gamba nuda del personaggio in piedi sulle scale, senza dubbio
derivata dalla Giuditta di San Pietroburgo.
Questo riscontro ci pare essenziale in quanto ci radica, e per via indiretta, ancora una volata nel
modo di Giorgione. Ma andiamo oltre.
Un altro elemento del quale non si può non tener giusto conto, interrogandosi sulle pitture, è quello
iconologico. Non è infatti frequente incontrare all'interno di uno spazio sacro pubblico - e con tale
enfasi - i temi di David e Giuditta. Precisiamo: non si tratta di un hapax, ma fino ad allora i due
personaggi erano per lo più presentati entro un articolato programma teologico, di cui facevano parte
non come primi protagonisti ma come comparse, anelli di una catena con ben altri estremi.
Spesso,
riferendosi ad un processo di allegorizzazione tipicamente medievale, essi andavano ad esprimere una
nutrita serie di concetti e relazioni. La prima era quella con Maria e Cristo trionfatori sul Demonio.
Di lì tutta una serie di virtù, religiose ma anche civiche: castità (per lei), giustizia, umiltà e
antitirannide. In queste ultime due accezioni Giuditta è quasi sempre appaiata (o appaiabile) a David,
giacché entrambi rappresentano sia la vittoria voluta da Dio del debole sul forte, del piccolo sul
superbo, sia la personificazione di virtù per antonomasia repubblicane; ecco dunque i casi celebri di
Donatello e Michelangelo.
Non è il caso di ricordare la predilezione di Giorgione per questi temi
(tanto convinta da autoritrarsi nell'uccisore di Golia ), se non nel fatto che una recente ipotesi
pone in origine la Giuditta di San Pietroburgo al fianco di un David. È invece importante
sottolineare come se di Giorgione, il rinnovo di simile scelta iconografica tenderebbe di per sé a
confermare la legittimità della chiave di lettura suggerita da Maurizio Calvesi a riguardo della forte
connotazione ebraica della cultura dell'artista: un ebraismo cristiano, sia ben chiaro, per nulla eretico
ma ermetico, per usare un gioco di parole, nel quale sembra coscientemente trasportata sul piano
visivo quella misteriosa compresenza di semplicità ed inestricabilità che si svela nell'esegesi dei
testi sacri.
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